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Dott. Maurizio FUMO - ex Presidente della 5^
sezione della Suprema Corte di Cassazione
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La decisione n. 8/19,
prot. 6104/19 del 29.11.2019 della corte federale FIS (che per fortuna non
dobbiamo chiamare sentenza) “merita” di essere adeguatamente analizzata (e
radicalmente criticata in alcune sue parti, non secondarie) nella sede
adeguata. Ed a tanto, a suo tempo, si provvederà. Qui è tuttavia il caso di porre in evidenza -
sia pure in maniera sintetica - quelli che, senza sforzi da parte di un lettore
appena attento e competente, appaiono come evidenti pecche, tanto logiche,
quanto giuridiche.
Ci si riferisce,
innanzitutto, alla dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado e,
quindi, al passaggio motivazionale relativo alla creazione (e ai “poteri”)
della c.d. scuola magistrale della federazione.
Se i decisori
(preferisco chiamarli così piuttosto che “giudici”), invece di trascrivere
diligentemente articoli del codice di procedura civile, avessero consultato un
po’ di giurisprudenza, forse sarebbero giunti a conclusioni diverse in
relazione alla prima questione; se poi avessero letto in maniera meno
superficiale la sentenza del TAR Lazio n. 2191/19 del 18.2.2019 e l’unico testo
di dottrina amministrativistica relativo all’Accademia Nazionale di Scherma (Cangelli
F., Riflessioni sulla natura giuridica
dell’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli, in Diritto dello sport, 3-4/2010, p. 307 ss.), avrebbero potuto
evitare di partorire una decisone così “federalmente” orientata sulla seconda
questione.
Procediamo con ordine.
Si legge nel provvedimento
della corte schermistica che la mancanza della firma da parte del presidente
del tribunale federale in calce alla decisione di primo grado (sottoscritta dal
solo estensore) è un vizio “considerato
gravissimo dall’ordinamento, tale da porre in dubbio la paternità stessa del
provvedimento”.
L’affermazione è
semplicemente non vera (usiamo un eufemismo!).
Sia la giurisprudenza
civile, che quella penale (addirittura a livello di Sezioni Unite della Corte
di Cassazione, cfr.: in civile: sent. 11021 del 2014; in penale: sent. 14978
del 2012) sostengono il contrario. Si tratta di una nullità sanabile. La
sottoscrizione è insufficiente, non mancante e l’assenza della firma del presidente
non incide “né sul giudizio, né sulla
decisione consacrata nel dispositivo” (conformi, in civile, Cass., Sez. 5,
sent. 9440 del 2017, in relazione alla decisione di una commissione tributaria;
in penale, Cass., sez. 6, sent. 46348 del 2015 e sez. 3, sent. 3386 del 2017).
Una diversa interpretazione, per i giudici di legittimità, sarebbe lesiva dei
principi del giusto processo.
Per di più, poiché “il
meccanismo decisorio” sembra ritagliato più sullo schema del rito penale che su
quello civile (art. 74 comma 6 del regolamento di giustizia FIS: dispositivo
letto all’esito dell’udienza, motivazione redatta in seguito), è indubbio che
una decisione di primo grado sia esistita. Il presidente del tribunale non può
non aver letto il dispositivo all’esito dell’udienza; quindi l’estensore ha
scritto la motivazione, depositando la sentenza-documento qualche giorno dopo.
Dunque la firma del presidente manca sulla sentenza-documento, non sulla
sentenza-decisione (scil. il
dispositivo, che come scrive la Cassazione, “consacra” la decisione). Parlare di un “dubbio sulla paternità stessa del provvedimento” fa sorgere il
dubbio sulla ragionevolezza (diciamo così) di chi tale assunto sostiene. La
corte federale però ricorda che, in base all’art. 76 comma 6 del regolamento
federale di giustizia, l’organo di secondo grado può solo confermare o
riformare il giudizio di primo grado, mentre non è consentita la “rimessione”
al primo giudice. Si tratta però (ed evidentemente) di un’espressione
impropria. Infatti, intesa in senso
tecnico (art. 45 codice di procedura penale) la remissione del processo trova
spazio quando la situazione ambientale è tale da non garantire la serenità del
processo. Ciò giustifica la translatio
judicii.
Ora è evidente che non
è questo il nostro caso. Probabilmente chi ha scritto il regolamento voleva
significare che non è consentita la regressione del procedimento (es. a seguito
di un annullamento con rinvio), non che non è consentita la sanatoria di una
nullità sanabile - appunto! - dovuta ad una svista o alla negligenza di un
giudicante (se il termine non fosse stato abusato in altro contesto, potremmo
parlare di un … “refuso non sostanziale”).
Ebbene, se in calce
alla motivazione della sentenza manca una delle firme prescritte, la
giurisprudenza di legittimità prevede una nuova redazione della
sentenza-documento (in pratica la firma del magistrato “distratto”). Ed è
quello che sarebbe stato lecito attendersi all’esito della iniziativa della
corte federale che fa riferimento ad una sua richiesta di chiarimenti
all’organo giudicante di primo grado. Infatti la corte della FIS afferma di
aver chiesto una relazione alla segreteria degli organi di giustizia “in ordine alle modalità di sottoscrizione
della sentenza 3/2019 del tribunale federale”; una relazione, vale a dire,
sulle ragioni della mancata sottoscrizione da parte del presidente del
tribunale. Ma il contenuto della relazione non è riportato nella decisione di
secondo grado. Si tratta di una evidente falla motivazionale. Dunque non
sapremo mai se la firma manca perché il presidente era impedito, distratto o
dissenziente. Ed è chiaro che solo in tale ultimo caso la mancanza potrebbe
aver rilievo. Ma, evidentemente, se fosse stato dissenziente, avrebbe fatto
emergere in qualche modo le sue ragioni. È curioso poi notare che la corte
federale supera con nonchalance (p.4)
il fatto che la predetta relazione sia priva di sottoscrizione perché -
sostiene - ne sarebbe certa la provenienza. Incerta, viceversa, rimarrebbe -
come si è detto - la paternità della decisione del tribunale, benché il
presidente di quel collegio abbia letto in udienza il dispositivo. Chissà se i
decidenti hanno mai sentito parlare del principio di non contraddizione!
E veniamo alla seconda
(e più “succosa”) questione. Essa è affrontata alle pagine 8 e ss.
dell’elaborato motivazionale.
Si sostiene (e ciò è
vero) che l’Accademia Nazionale di Scherma non è parte nel giudizio, non avendo
proposto alcuna impugnazione in relazione al nuovo statuto. Il che è ovvio, non
essendo l’Accademia affiliata alla FIS, non è neanche sottoposta al vincolo di
giustizia (come ha chiarito il TAR Lazio). Conseguentemente essa non ha adito
la giustizia federale. Ma la decisone, nella parte in cui - contraddicendo la
sentenza del giudice amministrativo - sostiene che la FIS può rilasciare il
diploma di istruttore nazionale e maestro (o, come si preferisce, l’attestato
ai “tecnici” di vari livelli) è certamente rilevante anche per il predetto ente
ultracentenario e dunque merita, almeno, una riflessione.
Per la dottrina citata
non va dimenticato che l’esame e il conferimento del diploma “rappresentano una delle ragioni fondamentali
della nascita dell’ente ... ben prima della nascita della FIS. Tale
primogenitura … ha una sua precisa conseguenza giuridica nell’affidamento in
via esclusiva all’Accademia Nazionale di Scherma del potere di rilasciare il
titolo di maestro e di istruttore di scherma. Tale potere rappresenta
probabilmente il punto di massima distanza … tra l’ordinamento della scherma e
quello delle altre discipline sportive.” (Cangelli F., op. cit., p. 315).
Per il TAR, d’altra
parte, è incontestata “la competenza
dell’Accademia al rilascio dei diplomi magistrali sin dalla sua costituzione,
con atto di normazione primaria”.
Ma, sostiene la corte
della FIS, nessun impedimento si rinviene nella normativa federale o del CONI
che si opponga a che (anche?) la federazione gestisca la formazione dei suoi
tecnici, appunto, attraverso la scuola magistrale e quindi li diplomi.
Ebbene, a parte le
evidente confusione che si fa tra formazione e certificazione (la prima
attiene, come è ovvio, all’acquisizione delle competenze; la seconda al momento
di verifica di tale acquisizione e al conseguente rilascio del
certificato-diploma), c’è da dire che il ragionamento riconducibile allo schema
“ciò che non è vietato è consentito”
può valere per quel che riguarda l’esercizio di un diritto (che pure soffre
limiti e prevede modalità), non certo con riferimento alla attribuzione di un
potere, come noto a tutti – ma non
evidentemente alla corte federale – soggetto al principio di legalità. Ogni
potere deve, in altri termini, trovare fondamento in una norma che lo
attribuisca ad un determinato soggetto e che lo disciplini. Nel nostro caso, si
tratta del potere di conferire un titolo professionale (così lo qualifica il TAR,
facendo riferimento al DCPM 5.4.2016, vale adire il piano nazionale di riforma
delle professioni, erroneamente svilito dalla corte federale). Si tratta di una
funzione con evidenti riflessi pubblicistici, che dunque necessita di un placet statale. Diversamente ragionando
(vale a dire facendo uso dell’adagio popolare: “ciò che non è vietato è consentito”), non si vede perché la FIS non
possa rilasciare diplomi di odontotecnico o, magari, lauree in giurisprudenza,
in modo da allevare una sua schiera di giuristi domestici. Nessuna norma
positiva esplicitamente lo vieta!
A parte le (facili)
battute, è evidente che la corte FIS ha letto con disattenzione la sentenza del
TAR Lazio, che non a caso ha annullato le sessioni di esami organizzate e
gestite “in proprio” dalla federazione e la ha anche condannata al risarcimento
dei danni. Orbene il giudice amministrativo ha fondato il suo convincimento su
quattro presupposti: a) lo stesso statuto della FIS (che, non a caso, nella
nuova versione ha voluto - contra legem
- cancellare l’Accademia, b) le fonti normative a far tempo dal regio decreto
del 1880, c) la prassi ultracentenaria in base alla quale il predetto ente -
prima da solo, poi in collaborazione con la FIS - ha organizzato e gestito gli
esami, d) il provvedimento di riordino delle professioni che prevede
esplicitamente che si diventa maestro di scherma, se si sostiene l’esame presso
l’Accademia. Tale ultima “fonte” è erroneamente sottostimata dall’estensore
della decisione, la quale parla di un atto di contenuto meramente ricognitivo.
Ora, a parte il fatto che la ricognizione si opera sull’esistente (e dunque si
riconosce – nel nostro caso – una situazione giuridica vigente), sta di fatto
che il “riordino” è avvenuto sulla base di due direttive europee, recepite,
come era inevitabile, nel nostro sistema giuridico.Forse è il caso di ricordare
che siamo in presenza di un ordinamento c.d. multilivello.
Forse è anche il caso
di ricordare una recente sentenza della corte di appello di Roma, sezione
lavoro (2924/18 del 5.7.2018), la quale ha chiarito che quando i “lavoratori
sportivi” prestano la loro opera con carattere di continuità, ripetitività,
regolarità e stabilità, essi non possono essere considerati dei dilettanti che,
a tempo perso, insegnano ad altri i rudimenti di una disciplina sportiva, ma
veri e propri lavoratori; indipendenti o subordinati, ma certamente
professionalizzati. E allora è da chiedersi come si possa rilasciare un vero e
proprio titolo professionale se non in base ad un atto avente forza di legge,
ma semplicemente perché “nessun
impedimento è possibile leggere (sic!)
nelle norme appena riprodotte”, vale a dire l’art. 15 del decreto legislativo
242/1999, che l’estensore, con la solita diligenza da amanuense, cita alla
lettera, aggiungendo, dopo aver trascritto (anche) l’art. 23 dello statuto del
CONI in tema di formazione dei tecnici che “da
tale elencazione (ancora sic!) non
deriva alcuna limitazione all’attività della FIS”.
In sintesi: non rileva
che non mi sia stato conferito quel potere; poiché non è trovo scritto che mi è
stato negato, ciò vuol dire che … mi è stato conferito. Un ragionamento connotato da disarmante semplicismo, che si fa
fatica ad attribuire a chi pratica il diritto.
Con una certa dose di
cinismo, i giuristi dicono che tutto si può motivare. Temo che sia vero; ma per
motivare una decisione palesemente sbagliata, bisogna essere dei fuoriclasse.
Maurizio Fumo