Ogni anno, tra comunicati e convegni, si solleva la questione dell’abbandono precoce nella scherma italiana. Ci si interroga sui numeri dei tesserati in calo, sulle difficoltà a fidelizzare i giovani, sulla perdita di potenziali talenti. Ma troppo spesso il dibattito si arena in un generico “bisogna fare qualcosa”, senza mai entrare davvero nel merito delle cause strutturali.
Eppure, due motivi principali sono sotto gli occhi di tutti. Sono noti agli insegnanti più esperti, sono evidenti a chi vive ogni giorno le dinamiche di sala. Ma restano sistematicamente ignorati a livello centrale.
1. LA MONOCULTURA
SCHERMISTICA: il limite di proporre una sola arma
La prima grande falla è di tipo
tecnico-strutturale: in moltissime società si propone ai giovani schermidori
una sola arma. Punto. Che ti piaccia o no. Che tu sia portato o meno.
E se non ti ci trovi? Se non ti diverte? Se non
riesci ad esprimerti in quell’ambiente tecnico?
A 9, 10, 11 anni, la scelta dell’arma non
dovrebbe essere una condanna ma un'opportunità. I bambini non hanno ancora una
formazione tecnico-tattica stabile, ma portano con sé caratteristiche fisiche,
ritmi interni, attitudini che possono trovare spazio in una diversa specialità.
Un fiorettista frustrato può diventare un ottimo sciabolatore. Uno sciabolatore
troppo irruente può trovare controllo nel fioretto.
Quando questo percorso di esplorazione non viene
offerto, quando l’unica opzione è “quest’arma o niente”, accade la cosa più
semplice e più grave: il bambino se ne va. Non si diverte, non si sente adatto,
non capisce. E smette.
Le società devono strutturarsi, nei limiti del possibile, per garantire almeno due armi. È una scelta strategica, non solo educativa. Significa offrire una seconda chance, un piano B tecnico, una possibilità di permanenza. Significa ridurre in modo significativo l’abbandono.
2.
L’ETÀ DELL’OBLIO: il paradosso degli over 20
La seconda
criticità emerge più avanti, quando il ragazzo o la ragazza ha già investito
anni nella scherma, ha partecipato a gare, magari ha preso una medaglia in un
Europeo U20 o in un Mondiale giovani. Eppure, al raggiungimento dei 21 o 22
anni, accade una frattura silenziosa e devastante: viene considerato “vecchio”.
Non è più under. Non è ancora “pronto” per la
nazionale assoluta. Non è in quel giro ristretto di atleti in orbita FIS. E
quindi? Semplice: sparisce dal radar. Nessuno più lo segue.
E questa, lo abbiamo già discusso più volte, è
una delle assurdità più grandi del nostro sistema. Stiamo parlando di ragazzi
che hanno fatto tutto il percorso, che hanno preso medaglie internazionali, che
hanno talento, voglia, sacrificio alle spalle. Eppure vengono lasciati andare.
Etichettati. Bruciati.
In Italia, ancora oggi, si investe troppo poco
su quella fascia cruciale che va dai 20 ai 23 anni. Una fascia che all’estero,
nelle grandi scuole di scherma (Russia, Francia, Corea), è considerata l’età
della maturazione tecnico-tattica definitiva.
Noi invece tagliamo. Archiviamo. Dimentichiamo.
Ma questi ragazzi non sono “falliti”. Sono un patrimonio tecnico ed emotivo che
andrebbe coltivato, sostenuto, reinserito anche in ottica futura. Sono una
preziosa riserva tecnica per la nazionale maggiore.
Se li perdiamo, perdiamo futuro. Perdiamo
esperienza. Perdiamo la possibilità di formare anche futuri maestri completi,
che abbiano vissuto un vero percorso schermistico. Il problema è strutturale.
Da sempre, le gare internazionali Under 23 sono state trascurate, quando invece
dovrebbero rappresentare un passaggio fondamentale. Un ponte. Perché è lì che
si forma davvero l’atleta che ha ancora margini di crescita e bisogno di
esperienze di alto livello, ma che non è ancora pronto per confrontarsi stabilmente
con il mondo assoluto. Per costruire una base solida, bisogna avere
visione.
Serve un investimento concreto sulle gare Under
23, sia a livello italiano che internazionale. Serve valorizzarle e usarle come
campo di sviluppo, come palestra formativa. Serve far capire ai ragazzi che a
21 o 22 anni non sono “fuori tempo massimo”, ma nel pieno del loro percorso. E
parallelamente, bisognerebbe rivedere anche la struttura degli allenamenti
collegiali: se si lavora con gli "azzurrini", che siano Under 23, non
più Under 20.
3. CONCLUSIONE: il
coraggio di cambiare modello
L’abbandono
precoce non è colpa dei ragazzi. È la diretta conseguenza di un sistema che
offre poche scelte, che spegne la motivazione, che mette da parte troppo
presto.
Serve una svolta culturale. Serve un modello che
preveda la doppia arma come standard obbligatorio per ogni società. Serve una
Federazione che non resti a guardare, ma vincoli l’apertura delle nuove sale a
criteri tecnici seri, che includano anche la possibilità concreta di impiegare
giovani maestri in cerca di spazi.
E serve infine una progettualità a lungo termine
che abbracci anche i post-under20, non come “residui”, ma come risorse vive e
pronte per la scherma italiana.
Solo così potremo tornare a crescere davvero.
Non in numeri di tesserati, ma in profondità, qualità e futuro.
Michele BONSANTO
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