23 febbraio 2024

UN RICORDO Di Irene CAMBER

Irene CAMBER
La prima notizia su Irene Camber che appare sul Bollettino nazionale federale è del 1941, numero 32. Al campionato femminile di III categoria Alberta Lorenzoni arrivò prima, Irene seconda, terza Marcella Mac Dowal, seguite da Nives Franco e Tina Galimberti. A maggio dello stesso anno è grazie al campionato a squadre femminile che si fece vedere anche perché la gara era organizzata a Trieste, la sua città. Militava infatti nella R.S. Ginnastica triestina, e passò il turno battendo il Circolo spada Venezia, con un 14-2. La squadra era composta oltre che da lei anche da Velasco, Lorenzoni, e Silvia Strukel, che praticamente è già o quasi la nazionale italiana femminile, o ci mancava poco. In seminifinale la Triestina batté il GUF Padova, accedendo al tabellone finale che la vide diventare campionessa italiana a squadre battendo in sequenza il Dopolavoro ferroviario Genova, dove militava Velleda Cesari, il GUF Milano, e il C.S. Torino. Fu il primo successo, nel quale mostrò evidenti capacità schermistiche e aveva solo quindici anni.

Da questa importante affermazione a quella decisiva che la consacrerà campionessa olimpica nel 1952, ci sono undici anni, ma effettivi soltanto otto, di continue gare e prestazioni che la vedranno impegnata in un continuo ininterrotto crescendo, in cui sarà campionessa mondiale nello stesso anno olimpico, prima donna in assoluto a raggiungere questo traguardo.

Era nata a Trieste nel 1924 e aveva due doti perfette di una persona impareggiabile, la bravura e l’umiltà. E se noi schermitori sempre pronti a verificare i risultati possiamo constatare che la prima dote fu innegabile, per la seconda c’è una testimonianza che lei stessa riportò in una intervista dopo che vinse a Helsinki. Prima di partire per la Finlandia si avvicinò alla porta per salutare la madre che le chiese se avrebbe potuto vincere. Tra donne evidentemente non si poteva mentire e lei rispose, potrei. “Allora se puoi devi anche riuscirci.” E con quel bagaglio interiore a metà strada fra l’esortazione e l’impegno morale, assalto dopo assalto si trovò nel girone della finale assieme a Ilona Elek, una ungherese abituata alla vittoria e di grande esperienza. La cronaca di quell’assalto la fece sempre Irene, che è in sé un manuale di introspezione durante un assalto, e perdonatemi se vado a memoria: “Dopo la prima stoccata pensai che avrei potuto mettere anche le altre e constatai che era possibile. E misi la seconda e la terza e poi la quarta.”, il tutto avvenuto dopo uno spareggio a tre assieme alla danese Lachmann.

I capelli ricci e corti e un sorriso accattivante fu il suo marchi distintivo. Quando la incontrai alla commemorazione del M° Marcello Lodetti anni fa, arrivò da sola a Milano, facendo il tragitto con treno e metropolitana da Monza, alla tenera età di ottantotto anni e mentre le chiedevo alcune notizie della sua formazione, mi raccontava che la foto del maestro che la formò, la teneva sul comò di casa, ma non ricordava il nome per un improvviso vuoto di memoria, ma la medaglia d’oro era nel cassetto, quindi non in bella vista.

Nelle ricerche l’ho poi ritrovata in moltissimi eventi della scherma italiana, come se fosse stata la madrina della scherma femminile il cui battesimo si ebbe con Marisa Cerani e Germana Schwaiger, ma chi la svezzò nei vent’anni successivi fu lei, che ne diresse il gruppo delle fiorettiste e ne curò per la federazione i molteplici aspetti di una scherma femminile che cambiava in continuazione e aveva di fronte a sé il blocco sovietico che cercava una egemonia e che raggiunse, ma non durò molto.

La rividi dopo quell’incontro in un filmato dell’Istituto Luce, durante un incontro dimostrativo, durante il quale erano stati invitati i migliori campioni italiani e stranieri, e poi sarebbe seguito un gala elegante, come un tempo si faceva. Tirava con impeto, consapevole di sé e di quello che faceva, e nell’ultima stoccata di quell’assalto, sembrò girata da un regista, ma interpretato da una grande attrice. Dopo un’azione veloce e ben eseguita, si toglieva la maschera e sorrideva soddisfatta, noncurante della ricostruzione dell’arbitro che non poteva non darle il punto della vittoria. La sequenza successiva mostrava Edoardo Mangiarotti in smoking e lei che sorseggiava un drink con uno splendido abito di pizzo nero, rossetto, matita e ombretto, perché era anche clamorosamente femminile. E siccome alle donne di talento non serve altro che mostrare quello che hanno dentro, più di quello che hanno fuori, si laureò in chimica e lavorò con il marito per una vita, mettendo su famiglia con la stessa umiltà con la quale vinse un’olimpiade, che, strano a dirsi, oggi inebrierebbe chiunque, ma evidentemente non lei. Il 12 febbraio aveva compiuto la splendida età di novantotto anni.

Fabrizio Orsini


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