La prima notizia su Irene Camber
che appare sul Bollettino nazionale federale è del 1941, numero 32. Al
campionato femminile di III categoria Alberta Lorenzoni arrivò prima, Irene
seconda, terza Marcella Mac Dowal, seguite da Nives Franco e Tina Galimberti. A
maggio dello stesso anno è grazie al campionato a squadre femminile che si fece
vedere anche perché la gara era organizzata a Trieste, la sua città. Militava
infatti nella R.S. Ginnastica triestina, e passò il turno battendo il Circolo
spada Venezia, con un 14-2. La squadra era composta oltre che da lei anche da
Velasco, Lorenzoni, e Silvia Strukel, che praticamente è già o quasi la
nazionale italiana femminile, o ci mancava poco. In seminifinale la Triestina
batté il GUF Padova, accedendo al tabellone finale che la vide diventare
campionessa italiana a squadre battendo in sequenza il Dopolavoro ferroviario
Genova, dove militava Velleda Cesari, il GUF Milano, e il C.S. Torino. Fu il
primo successo, nel quale mostrò evidenti capacità schermistiche e aveva solo
quindici anni.Irene CAMBER
Da questa importante affermazione
a quella decisiva che la consacrerà campionessa olimpica nel 1952, ci sono
undici anni, ma effettivi soltanto otto, di continue gare e prestazioni che la
vedranno impegnata in un continuo ininterrotto crescendo, in cui sarà
campionessa mondiale nello stesso anno olimpico, prima donna in assoluto a
raggiungere questo traguardo.
Era nata a Trieste nel 1924 e
aveva due doti perfette di una persona impareggiabile, la bravura e l’umiltà. E
se noi schermitori sempre pronti a verificare i risultati possiamo constatare
che la prima dote fu innegabile, per la seconda c’è una testimonianza che lei
stessa riportò in una intervista dopo che vinse a Helsinki. Prima di partire
per la Finlandia si avvicinò alla porta per salutare la madre che le chiese se
avrebbe potuto vincere. Tra donne evidentemente non si poteva mentire e lei
rispose, potrei. “Allora se puoi devi anche riuscirci.” E con quel
bagaglio interiore a metà strada fra l’esortazione e l’impegno morale, assalto
dopo assalto si trovò nel girone della finale assieme a Ilona Elek, una
ungherese abituata alla vittoria e di grande esperienza. La cronaca di
quell’assalto la fece sempre Irene, che è in sé un manuale di introspezione
durante un assalto, e perdonatemi se vado a memoria: “Dopo la prima stoccata
pensai che avrei potuto mettere anche le altre e constatai che era possibile. E
misi la seconda e la terza e poi la quarta.”, il tutto avvenuto dopo uno
spareggio a tre assieme alla danese Lachmann.
I capelli ricci e corti e un
sorriso accattivante fu il suo marchi distintivo. Quando la incontrai alla
commemorazione del M° Marcello Lodetti anni fa, arrivò da sola a Milano,
facendo il tragitto con treno e metropolitana da Monza, alla tenera età di ottantotto
anni e mentre le chiedevo alcune notizie della sua formazione, mi raccontava
che la foto del maestro che la formò, la teneva sul comò di casa, ma non
ricordava il nome per un improvviso vuoto di memoria, ma la medaglia d’oro era
nel cassetto, quindi non in bella vista.
Nelle ricerche l’ho poi ritrovata
in moltissimi eventi della scherma italiana, come se fosse stata la madrina
della scherma femminile il cui battesimo si ebbe con Marisa Cerani e Germana
Schwaiger, ma chi la svezzò nei vent’anni successivi fu lei, che ne diresse il
gruppo delle fiorettiste e ne curò per la federazione i molteplici aspetti di
una scherma femminile che cambiava in continuazione e aveva di fronte a sé il
blocco sovietico che cercava una egemonia e che raggiunse, ma non durò molto.
La rividi dopo quell’incontro in
un filmato dell’Istituto Luce, durante un incontro dimostrativo, durante il
quale erano stati invitati i migliori campioni italiani e stranieri, e poi
sarebbe seguito un gala elegante, come un tempo si faceva. Tirava con impeto,
consapevole di sé e di quello che faceva, e nell’ultima stoccata di
quell’assalto, sembrò girata da un regista, ma interpretato da una grande
attrice. Dopo un’azione veloce e ben eseguita, si toglieva la maschera e
sorrideva soddisfatta, noncurante della ricostruzione dell’arbitro che non
poteva non darle il punto della vittoria. La sequenza successiva mostrava
Edoardo Mangiarotti in smoking e lei che sorseggiava un drink con uno splendido
abito di pizzo nero, rossetto, matita e ombretto, perché era anche
clamorosamente femminile. E siccome alle donne di talento non serve altro che
mostrare quello che hanno dentro, più di quello che hanno fuori, si laureò in
chimica e lavorò con il marito per una vita, mettendo su famiglia con la stessa
umiltà con la quale vinse un’olimpiade, che, strano a dirsi, oggi inebrierebbe
chiunque, ma evidentemente non lei. Il 12 febbraio aveva compiuto la splendida
età di novantotto anni.
Fabrizio Orsini
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