Nella notte del 28 settembre,
un grande campione di scherma e di vita ci ha lasciati. Antonio Spallino,
comasco, classe 1925, era nato il 1° aprile e tracciare un profilo di quest’uomo
è di notevole difficoltà, non di certo per la chiarezza della sua vita, che fu
estesa, quanto per la sua ricchezza.
Quando lo incrociai
telefonicamente per alcune delucidazioni e perché avrei voluto incontrarlo, mi
parve uomo veramente nobile e oltremodo riservato, al limite della timidezza. Ne
ebbi soggezione ed esitai nel proseguire l’approfondimento. Mi disse
chiaramente: “ho scritto un libro sulla mia vita schermistica, non vedo cosa
dovrei aggiungere di più”. Aveva ragione. Il suo libro l’avevo letto e come
autobiografia è talmente equilibrata e ben scritta che sarebbe stato ingiusto
aggiungere altro. E per certi versi conoscere altro di quanto ebbe a raccontare
e senza porsi il problema di avere i peli sulla lingua poteva risultare anche
antipatico, oltre che inutile.
Cominciò la sua vita sportiva a
scopo terapeutico, prima con il canottaggio, poi con la scherma, dopo che il
padre gli fece realizzare una pedana di legno che posizionarono nello scantinato
di casa. Il maestro fu un amico schermitore della Comense, che non era maestro,
tale Gottardo Arrighi, un buonissimo fiorettista che lo impostò per un breve
periodo, prima che varcasse poi la soglia della Comense qualche anno dopo,
divenendo allievo del maestro napoletano Giuseppe Pisani di Castagneto. Questi
gli fu maestro di vita e di scherma e fatalmente si trovò molto a suo agio in
tutti i sensi, lasciandogli oltre che l’impronta schermistica che lo avrebbe
reso campione, anche l’eredità morale che ci inorgoglisce di ripetere assieme:
“Ricordati che in pedana, a differenza di ciò che può accadere nella vita
quotidiana, non potrai dissimulare nulla; sarai soltanto e tutto te stesso”.
Parole sante.
Passata la guerra dove fu
volontario in Abissinia, riprese l’attività sportiva, sempre aumentando in
bravura, con il grande piacere di “fare lezione” che lo aveva strutturato non
solo nelle capacità, ma anche nello stile, che oggi chiameremmo estetica, ma che
allora era il tratto distintivo della scuola di una intera nazione. Cosa che si
porterà dietro per tutta la vita, in quanto fu sempre uomo di stile umano e
professionale impareggiabile.
Nel suo enorme palmarès, citerò
solo il bronzo di Helsinki nel 1952 e l’oro a squadre nel fioretto di Melbourne
nel 1956, unito al bronzo nell’individuale, che lo pone fra i più importanti
fiorettisti di tutti i tempi, infatti le medaglie mondiali sono 6, delle quali
tre d’oro, tutte conquistate nelle prove a squadre.
Fu importante avvocato, ma
anche politico, dove si distinse per equilibrio e capacità, sempre ci piace ripeterlo con uno stile inconfondibile. Non solo fu sindaco della sua città dal
1970 al 1985, ma anche commissario straordinario per il disastro di Seveso e
l’allarme diossina. Non fu facile, ma dobbiamo a lui l’essere stato presente con
la maturità di un uomo degno di risolvere problematiche gravissime.
Il suo testamento sportivo, lo
ha scritto lui nel suo “Una frase d’armi” (ed. La vita felice – Milano 1997) che
non è solo una sorta di memoria, ma anche un opera letteraria dalla
impaginazione straordinaria, intrisa di notizie, aneddoti, frasi, aforismi
efficaci e immagini, la maggior parte di queste estratte dai numerosi trattati
di scherma che lui stesso collezionava la cui entità speriamo un giorno di
conoscere e di consultare.
Quello della scherma è un addio
solenne, a un nobile fiorettista.
Fabrizio ORSINI
Un altro BEL pezzo di storia della grande scherma che se ne va.
RispondiEliminaMio padre lo conosceva bene, per aver tirato con lui.
Sentite condoglianze alla famiglia, anche da parte di Pietro Fardella.
Gaspare Fardella