06 maggio 2021

IL SOGNO E LA REALTA'

Nella mia carriera di arbitro non mi era mai capitato di raccogliere le confidenze di un atleta, quelle di cui non si parla con nessuno. Probabilmente devo aver trasmesso molta fiducia se sono stato destinatario ed al tempo stesso depositario delle confessioni di un ragazzo praticante l’arma della sciabola.
Forse a molti addetti ai lavori lo scrivere di dette confidenze non farà piacere ma credo che redigere un pezzo che possa in qualche modo alleviare le delusioni e le amarezze di un ragazzo innamorato del suo sport preferito sia giusto.
Come dicevo, ho avuto la possibilità’ di parlare con un atleta, praticante la sciabola, del cammino intrapreso oramai 5 anni fa, proiettato alla partecipazione all’evento sportivo più importante per un atleta agonista e cioè le Olimpiadi, in particolare quelle di Tokyo. La conversazione è stata caratterizzata da un racconto amaro su alcuni episodi e dinamiche di cui questo atleta si è ritrovato talune volte vittima ed altre, oserei dire, complice. Certo è che se quel che mi ha detto fosse vero, pur sapendo che ogni atleta, in presenza di insuccessi o mancati conseguimenti di traguardi prefissati, ha la sua verità, c’è da domandarsi se il nostro sport, a livello mondiale, non debba passare attraverso dei cambiamenti radicali specie nell’arma di appartenenza di questo ragazzo.
Mi dice Alan (nome di fantasia per garantire l’anonimato al ragazzo) che partecipare ad una Olimpiade è stato il suo sogno fin da bambino. “Non dico tornare con una medaglia al collo ma almeno entrare nella storia del mio Paese. E c’era uno sport che per me incarnava i principi di nobiltà, di etica e di valore sportivo: la scherma.” Poi cresciuto, come atleta e come uomo Alan ha scoperto che anche il nostro sport è stato qualche volta protagonista in negativo. L’esempio più famoso di disonestà avvenne nel 1976 da parte del pentatleta ucraino Boris Onishchenko, oramai prossimo alla soglia dei 40 anni, consapevole di avere a sua disposizione l’ultima opportunità di conquistare l’oro olimpico individuale. Opposto al britannico Adrian Parker, il 38enne maggiore dell’Armata Rossa s’impose con una stoccata che però fece sorgere dei dubbi al più esperto Fox, chiamato ad incrociare le spade subito dopo con Onishchenko, in quanto la luce sembrò essersi accesa senza che Parker fosse stato toccato. Un legittimo dubbio che divenne una certezza.
Ad Onishchenko venne consegnata un’altra spada così da poter proseguire nel torneo, nel mentre la sua veniva esaminata dagli ispettori e, a distanza di un’ora, il verdetto fu implacabile. All’altezza dell’impugnatura, difatti, l’arma del sovietico conteneva un pulsante che, ogni volta che veniva premuto, trasmetteva un impulso elettronico che assegnava la stoccata all’argento olimpico di Monaco di Baviera, e le conseguenze non poterono essere altre che l’espulsione dal torneo.
Mi racconta Alan, invece, che rimase “colpito dalla storia dell’americano Peter Westbrook che dai sobborghi d’America riuscì a conquistare delle medaglie olimpiche affidandosi ad un maestro ungherese, consapevole, come me, che affidarsi ad un allenatore di provenienza da uno dei Paesi con maggiore storia schermistica potesse aiutarlo, non solo a migliorare la tecnica ma anche a capire meglio cosa succedesse durante la spiegazione della stoccata da parte dei 4 giudici in un momento in cui non c’era l’apparecchio elettrico ad assegnare la stoccata e dove la soggettività la faceva da padrone”. “Sono rimasto esterrefatto” – mi dice Alan – “al racconto di Matyas Szabo, contro cui ho tirato molte volte in Coppa del Mondo, che parlando del padre in una intervista, disse che vinse un assalto contro un nord-coreano 10 a 4 quando avrebbe dovuto perderlo 10 a 2 solo perché aveva degli amici russi (arbitri?)”.
E non vi dico l’amarezza dipinta sul volto di Alan nel raccontarmi queste cose. A questo proposito ho trovato in rete anche un racconto di un certo James Williams (UK), sciabolatore anche lui, che raccontava che doveva colpire davvero forte per far sì che i giudici gli dessero una stoccata a favore. “Comunque non mi sono fatto intimorire da questi episodi, li ho considerati come eccezionali” – dice Alan – “Io volevo andare alle Olimpiadi e mi sono allenato tanto, quattro anni di continui sacrifici per raggiungere questo sogno che addirittura si è prolungato di un anno a causa del Covid. Lo sapevo che non sarebbe stato facile, solo i migliori arrivano a quella mèta. Io vengo da un Paese dove la scherma è davvero uno sport minore.” Per raggiungere il suo obiettivo Alan ha investito anche risorse economiche personali ingaggiando un maestro Europeo, un po’ come fece Westbrook, perché “la scherma è nata lì e sicuramente i maestri europei sono i più bravi ed i più accreditati”. Eppure il suo percorso si è reso ancora più difficile perché la sciabola si è rivelata come l’arma più complicata di tutte, forse a causa della sempre più difficile ricostruzione delle stoccate da parte dell’arbitro dove anche il video, alle volte, sembra quasi peggiorare l’analisi della stoccata stessa. “Ho dovuto combattere anche contro l’arbitro oltre che contro il mio avversario! Lo so che adesso mi dirai che è facile incolpare sempre l’arbitro eppure avere l’arbitro dalla propria parte è importante per avere un piccolo vantaggio, anche solo in termini di sicurezza mentale”.
Mi viene da dire, però, che molte delle stoccate di sciabola in un match sono così al limite che è anche difficile riuscire a provare che un arbitro stia davvero imbrogliando. A questo proposito v’invito a cercare su YouTube l’assalto tra Paskov(BUL) e Honeybone(UK) per la qualificazione a Rio 2016 che ha sollevato molti dubbi. “Io non ho mai voluto cercare scorciatoie per raggiungere la qualifica olimpica” – continua Alan nel suo racconto – “però ho pensato che con il mio maestro a fondo pedana, visto il suo palmarès, avrei potuto contare anche su una certa sudditanza psicologica. Sudditanza che di certo gli arbitri non avevano mai avuto con il mio precedente maestro, sconosciuto ai più. Il mio maestro ha anche una lunga carriera arbitrale internazionale alle spalle e, l’ho provato sulla mia pelle, qualche stoccata dubbia mi è stata giudicata a favore grazie a qualche suo intervento anche perché alcuni arbitri sono suoi vecchi colleghi”. Questa volta però Alan non ha potuto nemmeno contare sul curriculum del proprio maestro. “Con l’avvento del COVID era rimasta una sola prova di Coppa del Mondo a darmi la possibilità di staccare il pass olimpico. L’avevamo preparata bene, la prima dopo quasi un anno di stop. Pur tirando contro un atleta di un Paese che già sapeva che non si sarebbe qualificato, e che avrei anche potuto ricompensare in qualche modo alla fine del match, non sono riuscito a portare a casa il risultato”.
Così Alan ha riposto tutte le sue speranze nella qualificazione di zona “ma non è servito a nulla essere bravo, essermi allenato, avere al mio fianco un maestro ed ex arbitro eccezionale. Ho perso contro un atleta molto meno accreditato di me solo perché l’arbitro, stavolta, era dalla sua parte e non dalla mia”. Qualcuno penserà che Alan abbia perso giustamente, che le sue siano solo illazioni, o che meritasse di perdere dato che lui stesso aveva cercato di sfruttare un sistema fatto di conoscenze, di sudditanze psicologiche volute o non volute, cercate e non. Forse Alan avrebbe dovuto fare come Williams dell’Inghilterra per avere una botta a favore, o magari come Szabo… alla fine la versione più forte di Alan è forse rimasta vittima dello stesso sistema cui lui aveva affidato le sue speranze, i suoi sogni! Naturalmente da ex arbitro ho cercato, e forse ci sono riuscito, di far capire ad Alan che gli arbitri sono tutti in buona fede e quando sbagliano non lo fanno consapevolmente, anche se da addetto ai lavori devo rilevare che, qualche volta gli errori più evidenti fagocitano dubbi e perplessità, però lascio ai lettori l’onere di una disamina scevra da coinvolgimenti personali.
Certo non si può negare che talvolta prevalgano le simpatie, sia per l’atleta che per le società, ma ritengo di poter affermare che siano episodi rarissimi.
Al fine di eliminare qualsiasi problematica e qualsiasi illazione che andrebbe ingiustamente a discapito di un intero settore, auspico una riforma che porti ad una indipendenza dalla FIS, un po’ come nel calcio con l’AIA (Associazione Arbitri Italiani), che consenta agli operatori di liberarsi da eventuali condizionamenti.
Luca GIOVANGIACOMO

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