Gaspare FARDELLA |
L’uroboro è un simbolo molto antico, presente in tutti
i popoli e in tutte le epoche, e raffigura un serpente o un drago che si
morde la coda, formando un cerchio senza inizio, né fine, e che vive nutrendosi di sé stesso, mangiandosi appunto la propria coda (dal greco: oùrà =
coda; boròs = divorante).
Simbolicamente, è un animale all'apparenza immobile,
ma in eterno movimento, e rappresenta il potere che divora e rigenera se
stesso, l'energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura
ciclica delle cose, che ricominciano dall'inizio dopo aver raggiunto la propria
fine.
Spogliata
dal sovraccarico dei significati propri di ogni figura del mito e
limitandoci a pensarla come ad una raffigurazione dell’eterno
ritorno, l’immagine spiega bene il meccanismo per cui il denaro nutre il
potere e il potere alimenta il denaro, in un costante doppio scambio tra
orifizi che trasmettono l’una sostanza all’altra. Sembrerebbe un meccanismo
perfetto: il moto perpetuo, che - sappiamo bene dalla fisica - non esistere.
Ora, anche in politica, e non solo in fisica,
qualunque sistema di scambio d’energia chiuso su sé stesso, autoreferenziale,
è destinato a morire. L’energia e il nutrimento prodotto sono inevitabilmente
insufficienti a sostenere nel tempo il movimento del meccanismo e/o la vita
dell’organismo.
Uroboro |
In più, in politica, si ha a che fare con un
organismo dalle necessità non costanti, ma crescenti; il suo appetito ha
qualcosa di pazzesco: non conosce sazietà, ma cresce crescendo.
Di denaro e di potere, non ce n’è mai abbastanza.
Questa è la natura degli esseri umani - e, quindi,
delle loro società - quando non si apprestano rimedi e non si pongono
limitazioni.
È all’opera una forza che ha certamente radici in
un’indole appropriatrice e sopraffattrice che costituisce il problema
essenziale d’ogni tipo di costruzione ordinata della vita sociale.
Il denaro o,
meglio, l’uomo di denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento e la forza
dell’arricchimento è l’arricchimento stesso: e, dunque, più si possiede,
più si mira a possedere.
La stessa ed identica cosa vale per il potere.
Basta ricordare la massima d’esperienza
antropologica di Montesquieu, sulla naturale tendenza tirannica dell’essere
umano, che quanto più è potente tanto più tende a tiranneggiare.
La vita sociale consiste nel contenimento di queste
due forze, denaro e potere.
Sono forze
disgregatrici poiché la lotta per il denaro divide le società, con un solco via
via più profondo, tra ricchi e poveri; la lotta per il potere, a sua volta, tra
potenti e impotenti.
La forza intrinseca di questa lotta porta alla
concentrazione, sia dell’uno, il denaro, che dell’altro, il potere. Essa si
estende nella cerchia dei già ricchi e già potenti, in lotta tra loro, ma
solidali quando la loro ricchezza e il loro potere sono minacciati dagli
esclusi dalla ricchezza e dal potere.
L’esigenza di accrescimento, tuttavia, non proviene
soltanto da ragioni d’indole soggettiva.
È il sistema stesso del denaro-potere che ha bisogno
di crescere costantemente.
La crescita è la condizione della fiducia e
dell’esistere. La mera crescita è però una sorta di condanna, poiché non
ammette sosta.
La sosta e, perfino, la “crescita lenta” equivalgono
all’inizio della corsa verso il fallimento, a meno che il denaro e il potere
non si rimettano sempre di nuovo in corsa. Si tratta non di vivere, ma di
sopravvivere a sé stessi.
In conclusione l’uroboro è un animale aggressivo,
consuma risorse e potere, crea sempre più poveri e sempre più impotenti.
In virtù della sua forza espansiva, rastrella per
tutta la terra e per tutti i popoli della terra quanto può servire a placare
momentaneamente la sua fame.
Ma, soprattutto, l’uroboro è cieco: guarda solo le
sue terga e non si chiede in quale direzione i suoi appetiti portano il mondo
in cui cerca di sopravvivere.
Non è in grado di avvertire i pericoli che
minacciano la sopravvivenza del mondo e, nel mondo, lui stesso. Non è in grado
di darsi una direzione. È un animale nichilistico, perfettamente adeguato al
tempo nichilista.
Ed è anche spietato, non
per volontà propria ma, ancor peggio, per intrinseca necessità.
Il processo è in corso da secoli e, da ultimo,
ha preso velocità: motus in fine velocior.
Da principio si poteva non vedere o fare finta di
non vedere; si poteva anche credere che
si trattasse di episodi isolati.
Oggi, non più.
Gaspare Fardella
Nessun commento:
Posta un commento