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MONTESQUIEU |
Il mondo dello sport ha (e rivendica con forza) la sua
autonomia. E questo è indubbio ed anche giusto.
Tuttavia l’ordinamento sportivo, non meno che i
rapporti tra i vari enti e le stesse condotte dei “personaggi” che operano
all’interno di quel mondo, non solo, devono necessariamente essere in armonia -
come è ovvio - con specifiche norme del
(sovraordinato) ordinamento statale e - ormai - con i principi comunitari, ma,
direi, dovrebbero conformarsi a quel sistema di cheks and balances che caratterizza la struttura dei moderni stati
democratici. A quel sistema e a quella mentalità: è questione culturale, infatti,
non meno che istituzionale.
“Il potere
assoluto corrompe assolutamente” ebbe ad annotare il massimo teorizzatore
della separazione dei poteri; gli esempi (grandi, piccoli, piccolissimi e -
addirittura - ridicoli) davvero non mancano.
E allora è il caso di chiedersi se effettivamente,
nell’ambito della federazione che più da vicino ci interessa, regni quell’equilibrio,
quel rispetto dei reciproci limiti, quella scrupolosa osservanza della legge
che dovrebbero caratterizzare l’operato di chi guida un così rilevante settore
sportivo e amministra, in ultima analisi, denaro di provenienza pubblica.
È lecito dubitarne se solo ci rifacciamo allo schema
del Montesquieu sulla divisione dei poteri.
Quello che può essere paragonato al potere
legislativo, vale a dire il potere di “produrre”, modificare ed aggiornare lo
statuto federale risiede - formalmente - nell’assemblea. E tuttavia il ricorso, quasi sistematico, ai
commissari ad acta, la delega
presidenziale a modificare, secondo la sua personale interpretazione, parti
dello statuto non “digerite” dal CONI, il rimedio della “correzione” dei ben
noti “refusi non sostanziali”, sono fattori che gettano quantomeno il dubbio
sulla reale efficacia e sul rilievo istituzionale stesso del meccanismo
assembleare. Ma non basta: bisogna chiedersi quale effettiva libertà di
(auto)determinazione abbiano i votanti o se essi piuttosto non siano
condizionati da un complesso “sistema di potere” che discende direttamente –
appunto – dalla mancata separazione dei poteri. E così si arriva a quegli
eccessi di prevaricazione (tra l’allarmante e il ridicolo, appunto) dei votanti
fotografati al momento del voto.
Ma, si dirà, esistono garanzie, sia pure attivabili ex post: si può ricorrere alla giustizia
sportiva!
E qui si può (si deve) affrontare il secondo corno del
dilemma, quello che riguarda il potere “paragiudiziario” all’interno della FIS.
Chi sono questi giudicanti? Chi li ha scelti? Chi li ha valutati e selezionati?
Quali garanzie di effettiva indipendenza offrono?
Sia chiaro: non ho alcun motivo (personale) di
dubitare della onestà intellettuale e della effettiva indipendenza di giudizio
di queste persone. Non ne conosco nessuna.
Ma è il sistema in sé che desta dubbi, perplessità e
sospetti. È (psicologicamente) difficile giudicare serenamente quando una delle
parti in causa è la persona o l’ente che ti ha conferito il mandato a
giudicare. C’è il rischio che il giudicante sia prevenuto, che non voglia assumere
decisioni sgradite al suo … “dante causa”, o che, al contrario, per non destare
il sospetto di non essere realmente indipendente, sia inconsapevolmente (ma
pesantemente) orientato a dare torto alla parte alla quale tutti si aspettano
che darebbe ragione.
Prendiamo il caso concreto del ricorso in appello
contro la decisione di primo grado provocata dal ricorso di alcune società che
hanno contestato la recente modifica dello statuto e le modalità stesse con le
quali si è svolta l’ultima assemblea.
I componenti del collegio giudicante sono tesserati
con qualche società? E, se si, con quale? Con una di quelle che hanno condiviso
le modifiche e che hanno giudicato regolare lo svolgimento dell’assemblea o con
una di quelle che le hanno contrastate, ritenendo, per altro, che l’assemblea
si sia svolta in violazione di precise norme statutarie?
Ma, a dirla tutta, è l’intero sistema della giustizia
sportiva che lascia perplessi. Molti giudicanti appartengono alla giustizia
amministrativa (TAR e Consiglio di Stato); e così può accadere che il giudice
sportivo della federazione “A”, sieda poi nella sezione del TAR che giudicherà
le questioni della federazione “B”, mentre il giudice sportivo della federazione
“B” … ecc.
Il discorso si può estendere a quel particolare tipo
di giudici che sono i componenti del GSA. Quale garanzia di (effettiva)
indipendenza essi possono offrire se, alla fine, tutto afferisce al vertice
della federazione che nomina il vertice del corpo arbitrale?
E veniamo a quello che possiamo paragonare al potere
esecutivo: la concreta amministrazione della federazione. E dunque, ad esempio,
la scelta e la nomina dei commissari tecnici (e la determinazione dei loro
compensi), la redazione dei bilanci, l’organizzazione dei corsi di formazione
dei tecnici (maestri ed istruttori), la organizzazione e gestione degli esami
magistrali. L’elenco, ovviamente, potrebbe continuare, ma possiamo fermarci
qui.
Forse non è “regolare” (per usare un eufemismo) che un
commissario tecnico, distaccato da una amministrazione dello Stato, percepisca
lo stipendio dall’ente di provenienza e, al contempo, un cachet (a quanto pare non indifferente) da parte della federazione.
Se un funzionario viene distaccato da un Ministero all’altro non percepisce due
stipendi. I soldi pubblici vanno amministrati oculatamente. Alla FIS i fondi
arrivavano dal CONI (oggi principalmente da Sport e Salute) e sono soldi del
contribuente.
Forse non è vero che i corsi di formazione sono
gestiti in autonomia dall’AIMS. Questa associazione di categoria (che dovrebbe
anche difendere gli interessi dei maestri-lavoratori), se non erro, è
sovvenzionata dalla FIS (e dunque nei bilanci dei due soggetti dovrebbe esserci
traccia di questo flusso di denaro). Può realmente esercitare la libertà di
insegnamento, ad esempio conferendo incarico, in ipotesi, a un docente che non
è nelle grazie (anche per motivi elettorali) dei vertici federali, ma che
ritiene (scil. che l’AIMS riterrebbe)
valido e meritevole?
E infine: è opportuno che la FIS, come ha tentato di
fare (non incontrando, allo stato, il consenso del giudice amministrativo)
organizzi, gestisca e amministri gli esami per il conferimento del titolo di
maestro e istruttore di scherma, spogliandone l’Accademia che, da più di un
secolo, svolge tale funzione?
L’Accademia Nazionale di Scherma è un ente autonomo,
preesistente alla FIS ed al CONI, composto da persone che (nella maggior parte)
non hanno ambizioni elettorali e che, principalmente, non traggono vantaggi
materiali dalla appartenenza al sodalizio. Non è utile e opportuno che la
valutazione della idoneità tecnica sia operata da un soggetto diverso da chi ha
curato la preparazione dei candidati? Non è prudente che la “immissione in
ruolo” di nuovi professionisti avvenga al di fuori di ogni ipotizzabile scambio
elettorale?
Quando in un unico vertice si riunisce il potere di:
1) modificare di fatto lo statuto, 2) distribuire fondi e utilità alle società,
3) nominare, sia pure indirettamente, gli arbitri e i direttori di gara, 4)
nominare i componenti degli organismi di giustizia sportiva, 5) nominare, con
procedure forse extra ordinem, i
commissari tecnici, 6) organizzare, tramite longa
manus i corsi di formazione e quindi premiare, con il relativo incarico di
insegnamento, questo o quel maestro (e quindi questa o quella società), 7)
gestire gli esami per il conferimento del titolo professionale e quindi
determinare chi deve diventare maestro o istruttore e chi invece deve rimanere
nel limbo dei non più atleti e non professionisti, si sono poste le basi per una
gestione, quantomeno, opaca del “potere sportivo”, che ben potrebbe essere
speso per acquisire e/o mantenere vantaggi sul piano elettorale.
Non sempre la continuità è un valore, mentre lo è
certamente la trasparenza.
Maurizio
Fumo