Non ho ancora finito di leggere il libro
di Daniela Simonetti, “L’impunità di gregge”, ma quel che ne ho già letto è più
che sufficiente per spingermi a pestare i tasti per esprimere un sentimento di
ribellione che stenta a prendere la forma giusta.
L’autrice descrive un mondo, che è il nostro, quello dello sport, che si allarga inesorabilmente fino a coinvolgere tutti: atleti, operatori, famiglie. Si parla di abusi sui minori, che avvengono con la sostanziale complicità di chi dovrebbe proteggerli. È questo il succo della denuncia abbondantemente documentata nel libro.
“Se serve una comunità per crescere un bambino, serve una comunità per abusarne”: frase in epigrafe all’inizio di uno dei capitoli. La comunità siamo tutti noi. Siamo noi, quando ci voltiamo dall’altra parte per non vedere, per non sapere, e poi ci indigniamo quando sappiamo, quando la realtà ci presenta il conto, mostrandoci una vittima che amiamo, che conosciamo, che ci è in qualche modo vicina.
Lo sconforto nel leggere il primo caso riportato, che riguarda il mio sport, la scherma, è stato in breve moltiplicato, diventando insostenibile, leggendo i numerosi casi che riguardano altri sport. Non si salva nessuno, e altri stanno addirittura molto peggio. E se qualcuno sembra salvarsi, resta forte il dubbio che l’eccezione sia dovuta alla pratica diffusa di mettere l’immondizia sotto il tappeto.
Siamo tutti malati di campionismo, e l’intera struttura dello sport, certo non solo quello italiano, deriva da questo peccato originale. Senza soldi non si va avanti, e i soldi arrivano per le medaglie, in primo luogo, per i risultati agonistici. Per le medaglie si perdona tutto, e dalle medaglie nasce un mondo di piccoli e grandi privilegi: una volta che ne hai sentito il gusto, è molto difficile rinunciare. E allora è meglio voltarsi dall’altra parte, o coprire con parole vuote l’esistenza di un problema, fingendo di affrontarlo. Si crea un clima di “omertà” che diventa un muro di gomma, una diga quasi insuperabile.
Anche le dighe, però, possono crollare. Quando lo scandalo è troppo grande perché si possa ignorarlo, le coscienze si svegliano, le vittime trovano la forza di reagire, e la società, che siamo noi, fa un passo avanti. È quel che è successo in America, dove sono state comminate pene severissime ai responsabili di scandali antichi, perché frutto di azioni perpetrate per anni, a danno di un’enormità di minori. Da questa parte dell’oceano, si sa, le cose seguono con un certo ritardo: ma infine seguono, malgrado le resistenze. Speriamo di non dover attendere scandali della stessa enorme portata, per riformare il nostro sistema, la nostra giustizia, la nostra mentalità.
Intanto, troviamo la forza di leggere i libri, come questo di Daniela Simonetti, che ci costringono dolorosamente a prendere coscienza di quanto accade, e a non restare indifferenti.
Giancarlo TORAN
L’autrice descrive un mondo, che è il nostro, quello dello sport, che si allarga inesorabilmente fino a coinvolgere tutti: atleti, operatori, famiglie. Si parla di abusi sui minori, che avvengono con la sostanziale complicità di chi dovrebbe proteggerli. È questo il succo della denuncia abbondantemente documentata nel libro.
“Se serve una comunità per crescere un bambino, serve una comunità per abusarne”: frase in epigrafe all’inizio di uno dei capitoli. La comunità siamo tutti noi. Siamo noi, quando ci voltiamo dall’altra parte per non vedere, per non sapere, e poi ci indigniamo quando sappiamo, quando la realtà ci presenta il conto, mostrandoci una vittima che amiamo, che conosciamo, che ci è in qualche modo vicina.
Lo sconforto nel leggere il primo caso riportato, che riguarda il mio sport, la scherma, è stato in breve moltiplicato, diventando insostenibile, leggendo i numerosi casi che riguardano altri sport. Non si salva nessuno, e altri stanno addirittura molto peggio. E se qualcuno sembra salvarsi, resta forte il dubbio che l’eccezione sia dovuta alla pratica diffusa di mettere l’immondizia sotto il tappeto.
Siamo tutti malati di campionismo, e l’intera struttura dello sport, certo non solo quello italiano, deriva da questo peccato originale. Senza soldi non si va avanti, e i soldi arrivano per le medaglie, in primo luogo, per i risultati agonistici. Per le medaglie si perdona tutto, e dalle medaglie nasce un mondo di piccoli e grandi privilegi: una volta che ne hai sentito il gusto, è molto difficile rinunciare. E allora è meglio voltarsi dall’altra parte, o coprire con parole vuote l’esistenza di un problema, fingendo di affrontarlo. Si crea un clima di “omertà” che diventa un muro di gomma, una diga quasi insuperabile.
Anche le dighe, però, possono crollare. Quando lo scandalo è troppo grande perché si possa ignorarlo, le coscienze si svegliano, le vittime trovano la forza di reagire, e la società, che siamo noi, fa un passo avanti. È quel che è successo in America, dove sono state comminate pene severissime ai responsabili di scandali antichi, perché frutto di azioni perpetrate per anni, a danno di un’enormità di minori. Da questa parte dell’oceano, si sa, le cose seguono con un certo ritardo: ma infine seguono, malgrado le resistenze. Speriamo di non dover attendere scandali della stessa enorme portata, per riformare il nostro sistema, la nostra giustizia, la nostra mentalità.
Intanto, troviamo la forza di leggere i libri, come questo di Daniela Simonetti, che ci costringono dolorosamente a prendere coscienza di quanto accade, e a non restare indifferenti.
Dieci pagine, quelle da 22 a 33, dolorosissime da leggere, perché fanno male, molto male; ma ciò che più sconvolge è il laconico comunicato della Federazione, riportato al secondo capoverso della pag. 33, che addolora per il suo pilatesco contenuto.
RispondiEliminaOra, se si dovesse tornare ai quei tempi, non si può fare a meno di ricordare il passo del Vangelo secondo Marco, dove si legge:
<<Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (9, 43-47).
Tali parole, dai toni duri ed aspri, sono certamente rivolte allo SCANDALO e a chi lo provoca, ma soprattutto e principalmente a coloro che ne hanno chiara contezza e riguardano tutta la loro persona: mano, piede, occhio, appunto; inoltre, esse rappresentano il modo di comunicare e mettersi in relazione con gli altri: fare, andare, vedere; ed il conseguente loro modo di comportarsi al verificarsi di atti che suscitano SCANDALO: tagliare un arto, o cavare un occhio.
Tuttavia, la mutilazione fisica non va presa alla lettera, perchè dette locuzioni sono palesemente di carattere iperbolico, esprimendo più semplicemente delle indicazioni verso un tipo di condotta da adottare per evitare che lo SCANDALO si possa riproporre o continui a produrre i suoi scabrosi effetti, da un lato, e non resti impunito, dall'altro; è quindi evidente che il loro valore è di serio e assoluto ammonimento e che, conseguentemente, non ci si possa limitare a mettere la testa sotto la sabbia o a nascondere la polvere sotto il tappeto.
Probabilmente, qualcuno non ha mai letto il succitato passo.
Cordialmente.
Gaspare Fardella
Rispondo qui a molti anonimi che chiedono notizie sulla recente sentenza del TAR. Ebbene, le vostre richieste vengono sistematicamente cestinate, quindi non insistete in quanto non troveranno mai accoglimento.
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