02 settembre 2021

LA SPADA: il percorso di un’arte divenuta disciplina sportiva Parte prima (le origini)

Riccardo BONSIGNORE
Perché la scherma per noi italiani è così maledettamente importante?
Perché ci arrabbiamo terribilmente se la Federazione non fa il suo dovere, che è quello di tenere sempre alto il tricolore nelle competizioni internazionali?
Perché ci scandalizziamo se nazioni completamente prive di storia riescono a schierare elementi che in particolare ai Giochi Olimpici (la Madre di tutte le gare) surclassano i nostri rappresentanti?
In primo luogo perché la scherma in realtà non è uno sport, ma un’arte e più precisamente un’arte marziale, quindi una cosa seria e questo sebbene in epoca moderna sia stata declassata al rango di disciplina sportiva per cui una spada è divenuta un attrezzo equivalente a una racchetta da tennis e non è più la riproduzione inoffensiva dell’arma bianca per eccellenza.
Nell’opera di Don Jeronimo de Carranza, un maestro operante nei pressi di Siviglia alla fine del ‘500, padre di una delle prime dissertazioni sulla scherma, nella sua tesi visionaria e per certi versi astrusa l’autore spiega di avere creato il suo sistema prendendo a prestito nozioni di tutte le materie  su cui allora si fondava l’educazione di un gentiluomo: la matematica, la scienza, l’arte, la filosofia e la religione e di averlo denominato destreza piuttosto che esgrima (scherma) in quanto esprime l’arte e l’abilità al massimo livello.
Se il pugilato è la nobile arte, la scherma è in origine il vertice assoluto dell’arte e della destrezza che un individuo, uomo o donna che sia, possa esprimere.
Non a caso i romanzi più avvincenti poi tradotti in film di successo con protagonisti come Errol Flynn e Douglas Fairbanks Jr., senza dimenticare la meravigliosa serie Disney con protagonista Guy Williams (al secolo Armando Joseph Catalano, siciliano figlio di emigrati negli USA) e, in tempi più recenti, Antonio Banderas e Catherine Zeta Jones, hanno spesso posto al centro delle loro storie prestigiosi schermidori: Don Chisciotte, i tre Moschettieri, Zorro, il Conte di Montecristo, Cyrano, il Corsaro Nero, e molti altri eroi rimasti nell’immaginario di chi non ha passato la propria infanzia nell’ignoranza uccidendosi di videogiochi.
Ma vi è una seconda ragione che lega in modo così forte noi italiani alla scherma, ed è presto detto: la scherma siamo noi.
Qualcuno dirà… ma i francesi?
Senza andare troppo indietro nel tempo - quando le popolazioni galliche (gli odierni francesi) ancora si dipingevano la faccia di blu mentre i romani, a differenza dei greci, consideravano la scherma un’arte e già avevano in Spartacus, un Trace formatosi schermisticamente all’interno delle milizie romane, il loro invincibile gladiatore - nella c.d. età dei maestri, quindi dal ‘500 in avanti, agli italiani era unanimamente riconosciuto il primato mondiale nella disciplina. Fino ad allora sia in Inghilterra e sia in Francia la perizia nella scherma era vista come una qualità discutibile se non addirittura contra legem.
A metà del XVI secolo il lessico della scherma era italiano, l’opera più letta dell’epoca era il trattato di Achille Marozzo (l’Opera Nova) pubblicata nel 1536 e seguita, nel 1553, dal Trattato di Scientia d’arme di Camillo Agrippa, lo scopritore della cavazione, poi seguì il veneziano Giacomo di Grassi, a cui va il copyright del detto la scherma come arte dell’inganno nel suo trattato dal titolo lunghissimo e, ancora, all’inizio del ‘600, Rodolfo Capoferro. Potrei continuare per ore a citarveli tutti, ma non è mia intenzione tediare nessuno e, men che meno, fare sfoggio di cultura.
Italiani erano anche tutti i migliori maestri (perfino Shakespeare si era scelto un maestro italiano, Vincenzo Saviolo) e i francesi al massimo potevano essere considerati degli allievi.
I miei quattro affezionati lettori potranno quindi ben capire perché noi italiani quando si parla si scherma ci scaldiamo tanto: la scherma è un’arte in cui gli italiani sono sempre stati fin dall’inizio della civiltà occidentale i maestri.
Solo i samurai, a detta di molti qualificati studiosi della materia, avrebbero potuto tenere testa agli schermitori italiani e anche superarli, ma i giapponesi hanno vissuto per secoli in un mondo chiuso fino a quasi perdere la memoria delle gesta dei loro guerrieri armati di katana e trovarsi costretti a reimparare la scherma da noi europei. Esiste anche in Italia una Federazione Italiana Kendo, ma il suo ruolo nel panorama sportivo è molto marginale (circa 50 dojo affiliati), a differenza delle arti marziali che disciplinano il combattimento a mani nude.
La scherma, dopo avere attraversato secoli in cui il gentiluomo ideale doveva essere forte, leggero, rapido e doveva necessariamente sapere tirare con tutte le armi, progressivamente diventò prima arte da sala riservata a un ristretto gruppo di personalità di alto lignaggio e arma da torneo e, quindi, fu promossa (o declassata, punti di vista) a sport, seppure di rango olimpico (ricordate l’esempio della racchetta da tennis di prima?).
Ne è andato di mezzo il senso dell’onore e del rispetto, oggi tra un calciatore e uno schermitore la differenza purtroppo è minima; io stesso sono stato bersaglio, su un noto blog spazzatura, di versi stressanti e volgari da parte di un gruppo di schermitori senza regole e senza valori, ma questo è un altro discorso.
E anche a Olimpia, tra gli Dei dello sport, si è sempre parlato principalmente italiano.
La questione è sicuramente dibattuta, ma in molti sostengono che l’anello di congiunzione tra la scherma militare intesa come arte marziale e quella moderna intesa come disciplina sportiva di rango olimpico sia stato un altro italiano (un mio celeberrimo conterraneo): Agesilao Greco.
Nella misura in cui il Maestro siciliano e teorico della scherma fu campione in moltissimi tornei nazionali e internazionali, anche se non olimpici, imbattuto per molti anni, questa affermazione probabilmente ha una sua fondatezza.
Inutile, poi, nominare i più grandi campioni della storia di questo sport che ancora oggi hanno tra i loro miti olimpici Nedo Nadi, Edoardo Mangiarotti e Valentina Vezzali.
Questa non breve premessa è necessaria per ricordare chi siamo, da dove veniamo, che aspettative ha il mondo su di noi e quali enormi responsabilità ha la Federazione Italiana Scherma, obbligata a tenere alto il prestigio di una Nazione come l’Italia, primatista mondiale di scherma, Federazione oggi da molti accusata - e non del tutto infondatamente - di non essere più da tempo all’altezza di questo compito.
E veniamo finalmente all’arma che più mi sta a cuore, la spada.
Pur essendo il sottoscritto una ex prima categoria di spada, ma anche buon tiratore di fioretto e sciabola, l’abbrutimento regolamentare di questi ultimi anni che ha snaturato le due armi convenzionali mi ha indotto ad allontanarmene.
Nel concentrarmi, quindi, sull’arma che conosco meglio e che tuttora pratico, consentitemi di fare un ulteriore passo indietro nel tempo.
Dalla scherma statica di Agesilao Greco, mattatore della spada con il manico ad archetti, si passò, con Giuseppe Mangiarotti, alla spada francese a manico dritto con una tecnica dinamica (per i tempi).
Il passaggio non fu indolore e diede luogo a un acceso diverbio tra i due (Agesilao voleva imporre la sua spada, ma prevalse quella di Giuseppe) che sfociò in un duello per fortuna mai tenutosi, ufficialmente per mancanza di accordo sull’arma da usare.
C’è comunque concordia di opinioni sul fatto che Giuseppe Mangiarotti sia stato il vero artefice della spada italiana moderna superando le vecchie concezioni.
Tutto a gonfie vele almeno fino al 1960 con una fucina di campioni: Edoardo e Dario Mangiarotti, Luigi Cantone, Carlo Pavesi, fino all’oro olimpico di Giuseppe Delfino (individuale e a squadre), poi un periodo di vacche magre con un solo bronzo (Saccaro alle Olimpiadi del 1968), seguito da una crisi nera.
Finchè il figlio di un barbiere tedesco di provincia ci mise lo zampino e pensò: perché impugnare il fioretto (e anche la spada) con le dita? Perché lo fanno italiani e francesi? Ci si stanca parecchio! Meglio usare il palmo della mano e utilizzare l’impugnatura anatomica (altra invenzione italiana del Maestro Athos di San Malato, siciliano anche lui, modificata come la conosciamo da Francesco Visconti che vedrà la sua più ampia diffusione nella seconda metà del XX secolo): meno fatica e piena potenza. E perché, poi, si deve colpire dritti come fanno gli italiani e gli ungheresi? Se alla fine occorre solo fare accendere la lampadina perché non vibrare la stoccata per esempio dietro la schiena, o anche saltando o accovacciandosi a terra?
Il dispositivo elettrico non dà punti per lo stile, né reagisce emotivamente a sguardi appassionati del pubblico, deve semplicemente accendersi quando la punta arriva sul bersaglio e se arriva più velocemente, con una frustata, tanto meglio.
Il tedesco in questione era Emil Beck, il primo ad abbandonare le dottrine classiche.
E da quel momento stabilì anche che non era più necessario condurre la lama con il braccio se si poteva farlo con le gambe e i piedi, che le finte non dovevano essere necessariamente rivolte verso l’avversario, ma in qualsiasi direzione fin tanto che producevano l’effetto desiderato e che una stoccata lanciata di frustata anche dietro la schiena non solo arriva prima, ma soprattutto non si può parare perché scavalca la lama avversaria (provate a parare prima e schiena e poi fatemi sapere).
Un “cane sciolto” che non conosceva leggi o inibizioni e che a far data dagli anni ’60 utilizzò le tecniche di fioretto anche per insegnare un nuovo modo di tirare di spada, un modo che però richiedeva anche una particolare preparazione fisica, e si passò così a una spada dinamica di livello superiore, dove la mobilità e la prepotenza fisica insieme alla nuova tecnica misero in crisi gli schermitori di tutto il mondo.
Per arrivare alla fine delle sue lezioni, infatti, bisognava essere una macchina inarrestabile.
La scuola di Emil Beck, a Tauberbischofsheim, organizzata con criteri imprenditoriali di alto livello riuscì a ottenere il supporto di grandi aziende, come la Daimler Benz, la Sony, l’Adidas e in totale 52 grandi sponsor, di guisa che il tedesco mise in piedi la sala più grande e attrezzata d’Europa, con piscina e centro fitness.
Con questa accademia Beck formò atleti come Matthias Gey e Matthias Behr nel fioretto, e nella spada niente di meno che gli ori olimpici e mondiali Alex Pusch, Elmar Borrmann, Volker Fischer chiamando alla sua corte anche un certo Arnd Schmitt (con cui poi ci fu un furioso scontro che magari vi racconterò separatamente), oro olimpico individuale a Seul ’88 contro l’eterno gigante marsigliese Riboud.
Inizialmente deriso da tutti i colleghi, alle Olimpiadi del 1976 con gli schermitori provenienti dalla sua accademia, ben nove, gli allievi di Beck vinsero complessivamente undici medaglie olimpiche fra individuali e squadra, tra cui cinque ori. Nel 1984 i suoi allievi convocati alle Olimpiadi erano undici e si aggiudicarono dodici medaglie, sette delle quali d’oro.
Che io ricordi, non ha pari nella storia della scherma: si era aperta una nuova fase.
Contemporaneamente e limitatamente al solo fioretto, un altro geniale Maestro, Livio di Rosa, nella sua sala di Mestre stava percorrendo la nuova strada con il suo allievo migliore, Fabio Dal Zotto, oro olimpico a Montreal ’76 nel fioretto individuale con una scherma nuova che sconcertò gli avversari.
Nel tempo, com’è noto, l’accademia di Mestre sfornerà molti altri campioni raggiungendo il suo momento più alto ai Giochi di Los Angeles del 1984, con la vittoria individuale e a squadre di Mauro Numa e la presenza nella squadra olimpica di ben tre fiorettisti mestrini.
Ritengo che per molto tempo fioretto e spada sono state armi interconnesse dove il primo influenzava la seconda.
Credo che oggi sia il contrario e non è affatto un bene.
Riccardo BONSIGNORE

5 commenti:

  1. Complimenti, Riccardo, la prima parte - come la hai definita tu - mi è piaciuta molto.

    Sono ora curioso di leggere la seconda, la attendo con ansia e trepidazione... non lasciarmi sulle spine.

    Un abbraccio.
    Gaspare

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  2. Grazie cari amici, troppo buoni.
    Lunedì sarà pubblicata la seconda parte, tenetevi pronti ;-)

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  3. Un ottimo intervento che fornisce un punto di vista interessante e condivisibile sulla nostra evoluzione. In astratto le interazioni tra fioretto e spada possono offrire stimoli costruttivi, puoi spiegare perchè ora vedi queste interazioni come negative ?
    Dino Cannas

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  4. Ciao Dino, non le vedo negative, le vedo finite e a tutto voler concedere invertite.
    Le nuove tarature del fioretto elettrico (allungamento del tempo di chiusura del circuito e diminuzione del tempo di blocco del segnalatore) hanno fatto diventare il fioretto una piccola spada (dove l’arresto di un avversario che attacca spesso da’ buoni frutti).
    Quindi se il fioretto si e’ in parte “spadizzato”, tanto vale tirare di spada e chiuderla lì’.
    Tanto e’ vero che il fioretto cosi’ stravolto non ha più avuto evoluzioni, si e’ cristallizzato.

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