avv.Riccardo BONSIGNORE ZANGHI |
Impensabile stare con il braccio in linea in perenne opposizione come ai tempi di Mangiarotti: uno spadista che negli anni ’80 avesse tenuto un atteggiamento del genere a livello di CdM sarebbe stato crivellato di stoccate portate di fuetto sul polso e sull’avambraccio.
La formazione di spadisti fisicamente preparatissimi grazie anche all’evoluzione degli studi moderni sulla resistenza organica e sulla forza veloce ha poi esasperato dette caratteristiche e avvicinato la distanza tra i tiratori come li conosciamo oggi nel circuito di Coppa.
Negli anni ‘60 e ‘70 la nostra spada, pur avendo individualità assai valide, come ad esempio John Pezza, conobbe un momento di grave crisi da cui faticò a venire fuori.
Il riscatto iniziò con Stefano Bellone, nella seconda metà degli anni ’70, e proseguì con un altro milanese, Angelo Mazzoni, e con un napoletano, Sandro Cuomo, protagonisti di primo piano tra gli anni ’80 e ’90.
Questi ultimi per almeno un ventennio costituirono il pilastro portante della nostra Nazionale e, diversissimi tra loro per scuola e carattere (Angelo destrimane con spada francese, Sandro mancino con spada anatomica), ebbero in comune una caratteristica: ossia essere prima atleti completi e poi schermitori.
Angelo curava la preparazione atletica in modo scrupoloso, fu uno dei primi schermitori ad allenarsi in palestra anche con i pesi, Sandro uno sportivo totale, ottimo calciatore, velista, un atleta di prim’ordine, entrambi anche eccellenti fiorettisti.
Da qui è ripartita l’arma senza convenzione, precisamente con il bronzo del riscatto ai Giochi di Los Angeles ’84, marcia oserei dire trionfale che è poi culminata con i due indimenticabili ori a squadre di Atlanta e ’96 e Sydney 2000, proseguendo ancora con l’oro individuale di Paolo Milanoli ai mondiali di Nimes del 2001, fino ad arrivare al 2008 con l’oro olimpico individuale di Tagliariol e il bronzo a squadre a Pechino.
Da questo momento è però iniziata una fase calante caratterizzata da non poche battute d’arresto, con posizioni in classifica delle nostre squadre e dei nostri rappresentanti a volte imbarazzanti ottenuti in kermesse mondiali e olimpiche.
Innegabilmente ci sono stati degli acuti (i due ori individuali di Pizzo e Fiamingo e l’oro individuale della Navarria in rassegne mondiali e, a livello olimpico, due argenti a Rio con la Fiamingo e la squadra maschile e un bronzo a Tokyo con la squadra femminile), tuttavia non c’è stata continuità e soprattutto ciò che ha molto preoccupato e che preoccupa è stato il collettivo (sia maschile che femminile) che in 13 anni ha raccolto un bottino troppo magro senza più riuscire a vincere un titolo olimpico individuale o a squadre dopo il dominio dell’ultimo decennio del XX sec.
Il malessere della spada è anche coinciso, a Tokyo, con il traumatico insuccesso delle squadre di fioretto maschile e femminile, i due dream teams da sempre nostro fiore all’occhiello rimasti a zero medaglie, che ha fatto tuonare, poche settimane fa, il presidente del CONI Malagò, il quale sulle pagine delle principali testate sportive ha dichiarato che “la Scherma italiana è un ambiente da ricostruire”.
Affermazione che mi trova molto d’accordo.
Ma restiamo alla spada per non ingenerare confusione.
Cosa è successo?Secondo il mio punto di vista hanno giocato molti fattori.
Il primo è dovuto al fatto evidente che la spada è entrata nella sua nuova fase, l’età dei superman, da intendere come atleti selezionatissimi e preparatissimi (si dice che i russi e gli orientali per riscaldarsi facciano un’ora di tabata) progettati in sale-laboratorio per eseguire azioni irresistibili e addirittura impressionanti in fase offensiva tirando a ritmi elevatissimi, mentre noi siamo rimasti indietro dando ancora troppo spazio alla vecchia convinzione che chi attacca nella spada è svantaggiato (solenne castroneria, in quanto è svantaggiato solo chi attacca male o non sa farlo).
La crisi attuale della spada, quindi, ha in parte una spiegazione tecnica e deriva da un nostro modo di tirare vecchio, arzigogolato, debole e spesso anche troppo attendista che si impara nelle sale da scherma italiane, in larga parte locali insufficienti, con poche pedane e lunghe attese e, soprattutto, senza gli attrezzi necessari per assicurare agli allievi quella adeguata prodromica preparazione fisica che, quando viene svolta, spesso è gestita da personale stagionale di dubbia capacità professionale.
Ed è evidente che l’efficienza fisica condiziona il modo di tirare, nessuno schermidore può negarlo, quindi si innesca un circolo vizioso.
Ci hanno superato, va ammesso: mentre noi non abbiamo fatto significativi passi avanti rispetto all’epoca in cui ci mettevamo le braghette della divisa, ci scaldavamo con due affondi e salivamo subito in pedana a tirare, gli altri Paesi, soprattutto quelli orientali, hanno fatto registrare progressi notevolissimi.
Questo non riguarda solo la spada, chi ha visto gli sciabolatori coreani in azione a Tokyo, che sembravano alieni atterrati da un’altra galassia, sa di cosa sto parlando.
Ovviamente non è così in tutte le sale, c’è anche chi fa eccezione, ma non è la regola.
Ormai si è visto, i grandi spadisti internazionali sono selezionati a monte, hanno doti fisiche e preparazione tali da consentire loro di non sfigurare neppure in gare di atletica leggera, praticano una scherma super dinamica e senza troppe sofisticherie, si allenano in centri attrezzatissimi sotto le cure di staff di prim’ordine: di questo ad es. si è avuta prova anche nel fioretto, il nostro Dani Garozzo in finale a Tokyo è stato perfino lui sovrastato dal suo avversario sul piano fisico, così come è successo a tutti gli spadisti e spadiste ad eccezione del solo Santarelli che ha tenuto bene fino alla semifinale con una scherma propositiva ed efficace in fase offensiva, ma anche lui nel momento decisivo ha manifestato limiti di tenuta.
Scioccante, poi, l’immediata eliminazione della squadra maschile al primo incontro, e nonostante le recriminazioni di qualcuno, non è stato certo per colpa dell’arbitro.
Sia chiaro, non intendo gettare la croce sui nostri azzurri che hanno dato il massimo, ma certo chi li ha supportati in modo così lacunoso dovrebbe porsi più di qualche domanda.
Questa nuova crisi del settore è stata a mio avviso generata anche da almeno 16 anni di politica federale autoritaria, autoreferenziale, miope, isolata nel palazzo e ultimamente anche divisiva, foriera della polverizzazione delle sale da scherma e di uno scadimento profondo della nuova classe magistrale, lacerata ai suoi vertici e con un problema grande come una casa sulla legittimità della formazione che è arrivato perfino nelle aule giudiziarie, fino al Consiglio di Stato in un braccio di ferro pernicioso tra la Federazione e l’Accademia Nazionale che ancora continua. Mai si era visto uno scontro frontale tra l’apparato federale e l’Ente preposto per legge a rilasciare i diplomi ai docenti, un qualcosa di inconcepibile con ricadute negative a lungo termine.
E mentre la Federazione è sembrata intenta a concentrare i suoi sforzi per erodere le prerogative dell’Accademia Nazionale, i problemi sostanziali sulle capacità e sulla formazione adeguata di chi deve formare gli allievi sono rimasti insoluti.
Tra i tanti temi caldi, per esempio, non è dato comprendere perché nel Karate e in tutte le arti marziali orientali per diventare istruttore o maestro è obbligatorio prima prendere la cintura nera, ossia conseguire un grado molto elevato che necessita di anni di studio e di pratica, mentre in ambito schermistico è consentito a chiunque iscriversi ai corsi di formazione, imparare a pappagallo qualche sinossi riempiendosi le meningi di nomenclatura arcaica, prendersi in pochi mesi il pezzo di carta abilitativo di istruttore di primo grado (abilitazione che qualche anno fa spettava di diritto ai prima categoria, quindi a schermitori di massimo livello, con norma poi insensatamente abrogata) e quindi entrare in una sala (non di rado con paga inadeguata e posizione lavorativa non regolare) a mettere in guardia giovani allievi, o forse dovrei dire piccole cavie (absit iniuria verbis).
In questo abnorme scenario, cosa ci si potrebbe aspettare di buono?
Che cosa ha fatto la FIS per aiutare le società a venire fuori da questa situazione?
Non pervenuto.
E così, mentre si dibatteva su questioni di potere e i regolamenti venivano utilizzati per accentrare sempre di più i poteri a Roma, centinaia di talenti sono finiti in sale inadeguate e, dopo qualche risultatino incoraggiante nelle categorie giovanili, sballottati tra un istruttore e un altro hanno finito per abbandonare.
Vi è stata una carneficina di potenziali campioni, ma non solo, perché a questo decadimento globale è connesso il problema non meno grave della decimazione delle seconde linee.
Si tratta di una questione di importanza strategica centrale, come dirò meglio da qui a un attimo.
Se la scherma per legioni di istruttori professionalmente non sempre all’altezza del compito è diventata un secondo lavoro o una soluzione temporanea per sbarcare il lunario, con la frammentazione delle sale (a volte anche 4 o 5 per piccole città) giocoforza è aumentata la necessità di reclutare chiunque, di alzare i numeri tenendo le quote sociali ai minimi possibili e quindi con una rivalità concorrenziale sempre più accesa tra le sale e giochi per l’accaparramento degli atleti migliori non sempre “puliti”.
Ma tutto questo non si concilia con la qualità, perché un maestro di scherma professionalmente adeguato può fare 6, 8, massimo 10 buone lezioni al giorno: tenendo questi ritmi con un paio di lezioni a settimana per iscrito, secondo me minimo sindacale, si possono gestire seriamente non più di 30 allievi, numero insufficiente per coprire anche solo i costi.
Detti limiti operativi dovrebbero essere ottimizzati mediante una selezione d’ingresso che però non è possibile fare perché i numeri sono fin troppo modesti.
Emil Beck quando arrivavano ragazzini e ragazzine nella sua sala lanciava cinque palline e solo chi riusciva a prenderne almeno due era ammesso, gli altri (ed erano la maggioranza) potevano dedicarsi ad altro: il tedesco aveva capito che l’affollamento delle sale era deleterio e che per fare arrivare soldi bisognava darsi da fare anche con gli sponsor e con i risultati, quindi qualità e quote adeguate.
In Italia, invece, siamo riusciti ad andare nella direzione completamente opposta, non era facile!
Chi ha un minimo di doti naturali anche per questi motivi sceglie altri sport e con quei pochi che restano non si può neppure pensare a una selezione.
Vista dalla parte degli spadisti agonisti (quale io ancora sono, quindi parlo a ragion veduta) la situazione appare anche peggiore.
Fino al 2004 (mi correggerete se sbaglio) ogni spadista si misurava con avversari del suo livello.
Questo era assicurato da 4 categorie a cui si aggiungeva una quinta, i non classificati (n.c.): un n.c. in gara non tirava di certo con una prima categoria, eventualità che gli avrebbe fatto passare la voglia di salire in pedana esattamente come avviene quando una cintura bianca sale sul tatami per affrontare una nera: sono indimenticabili mazzate.
Ma ciò che era immediatamente comprensibile a chiunque non lo è stato per la politica federale di quegli anni (Scarso si insediava proprio a gennaio del 2005) che le categorie le abolì senza appello introducendo il “ranking” e gare nazionali abnormi il cui accesso era regolato - senza minimamente tenere conto delle disomogeneità territoriali - da selezioni regionali in cui, per esempio, il n. 33 della Lombardia (quindi uno di buon livello) restava escluso e il n. 5 della Calabria (decisamente meno forte) invece si qualificava!
In tal modo gli ex prima e seconda e gli ex quarta categoria e n.c. sono stati costretti a tirare assieme in garoni denominati “open” più simili a gironi infernali che a eventi sportivi, in cui 300/400 e fino a 600 qualificati (con l’avvento della Coppa Italia) completamente eterogenei davano luogo a confronti improbabili ove un rappresentante della Nazionale maggiore poteva trovarsi a tirare con un quindicenne allo sbaraglio.
Ed è così successo che gli spadisti c.d. seconde linee, scoraggiati da questo demenziale regolamento di gara, hanno iniziato ad abbandonare perché non aveva e non ha senso, finite le giovanili, rischiare di andare fuori in una gara di qualifica regionale disputata in Lombardia o in Emilia Romagna, o nel Lazio, ovvero, se ottenuta la qualifica, fare i 128 o, quando va bene, i 64 in un open nazionale senza concrete prospettive future di ottenere risultati gratificanti.
L’abbandono in massa di tantissimi spadisti validi in grado di potere allenare i migliori elementi è stato uno stillicidio tangibile, un problema sul problema, e le sale più piccole ne hanno maggiormente risentito, tanto che gli spadisti top sono stati costretti a emigrare e a riunirsi in poche sale, soprattutto a Milano e a Roma, per avere adeguati sparring partners, indispensabili per potere crescere e migliorare.
In tal modo le piccole sale, già orfane delle seconde linee, sono state private anche dei loro campioni e sono state costrette ad abbassare ulteriormente il livello per sopravvivere buttando dentro tutti e assumendo manovalanza sempre più bassa per contenere i costi.
I problemi finanziari delle società sono stati fronteggiati sempre più spesso “mendicando” l’organizzazione di una gara alla FIS (interessata a concedere il più possibile per chiari fini elettorali) e di conseguenza il calendario agonistico è diventato affollatissimo con montagne di spese per le famiglie e una vita grama per i tecnici (così oggi li chiamano) lontani da casa praticamente ogni weekend.
I federali, invece di cambiare una formula palesemente perdente e insensata che va avanti senza significative variazioni di tema ancor oggi e di incentivare le seconde linee a restare - lo capirebbe anche quisque de populo che un podio nazionale di quarta categoria è estremamente più gratificante di un 36° posto in un open - soprattutto consentendo agli spadisti di competere in base al proprio livello e maturare secondo i loro tempi, mentre hanno mantenuto al campionato italiano assoluto la formula di passerella per i migliori 40 del ranking (di fatto i professionisti dei gruppi militari), apoteosi del disincentivo, hanno chiesto all’AMIS (una richiesta che non si può rifiutare) di aprire la cat. Zero ai tiratori da 24 a 29 anni così trasformati in babymaster (sic!) e hanno inventato gli odiosissimi CAF.
Un ennesimo flop clamoroso, come tutti ben sanno.
Ma il problema più drammatico attiene alla crisi della meritocrazia (in questo il nostro sport è tristemente diventato molto simile al resto del Paese).
La prima linea dei top fencers è infatti in mano a c.t. in grado di assumere qualunque decisione discrezionale, laddove codesta “discrezionalità” è divenuta talmente larga da sconfinare nel diritto libero di fare tutto ciò che si vuole, perfino potere liberamente selezionare per la CdM il numero 14 del ranking (uno che perderebbe con i migliori cinque del ranking Master) e lasciare a casa il numero 4, o selezionare per una competizione olimpica la figlia, classificata più in basso nel ranking rispetto a ben due tiratrici concorrenti in una posizione migliore.
Mi è stato riferito, ed alla luce di quanto testé osservato pare notizia credibile, che il posto in Nazionale agli anziani “del giro” sarebbe assicurato a prescindere dalla loro posizione nel ranking, quindi in modo avulso rispetto ai risultati ottenuti e, piuttosto, in dipendenza del gradimento del c.t.
Se ciò risponde al vero, per quale ragione e con quali stimoli costoro dovrebbero alzare continuamente il loro livello per restarci?
Conseguentemente, se è vero com’è vero che il miglioramento passa per il sacrificio “devi soffrire” (cit. Fabio Galli), questa comfort zone riservata ai titolari non mi pare il miglior presupposto per poi andare ad affrontare oltre confine i “superman”.
Oltre tutto, se c’è un c.t. che fa quello che gli pare e convoca chi vuole lui con poteri così “pieni” da porlo anche in condizioni di non consentire detta scalata semplicemente facendo la lista dei convocati in CdM (attraverso cui si deve passare per ottenere la qualifica olimpica) non secondo il ranking, ma a modo suo, perché mai un giovane talento dovrebbe dannarsi l’anima e passare le sue giornate in sala a migliorarsi per scalare detto inutile ranking?
Si dice (relata refero) che la Nazionale di spada abbia via via assunto le sembianze di un clan chiuso, una sorta di circolo esclusivo gestito liberamente da un fiduciario (non importa il nome, importa il metodo) mai messo in discussione dai vertici che lo hanno nominato in base a uno stretto rapporto di “affinità” (e non certo a seguito di un concorso per esame o titoli), dove i pochi nuovi arrivati (sempre più spesso sotto la pressione dei gruppi sportivi militari e di polizia) devono camminare in punta di piedi attenti a non pestare la coda agli “anziani”. Se la realtà è questa bisogna osservare che la nostra Nazionale è ben lontana dall’assomigliare a un gruppo seppur di élite ma aperto, dove chi arriva dovrebbe essere rispettato e ammirato per il suo valore sportivo perché si è conquistato a suon di risultati il suo diritto a esserci, primus inter pares rispetto a chi già sta lì.
Perfino Attilio Fini, che pure non era un simbolo di democrazia, convocava il campione italiano in carica ai mondiali assoluti, ma oggi non è più così, e questo stato di cose è deleterio.
Per dirla alla MLK, sogno un c.t. che dovrà essere una figura equilibrata, competente e super partes, una specie di direttore d’orchestra d’alto livello che selezionerà gli elementi della Nazionale esclusivamente in base ai loro meriti, quindi in base ai loro risultati oggettivamente indicati dal ranking (un ranking che abbia delle regole chiare per evitare che arbitrarie esclusioni in CdM lo inquinino) e sogno una Nazionale in cui i convocati si alterneranno rivaleggiando tra loro motivati e competitivi in una virtuosa rotazione meritocratica.
Sogno un c.t. senza il “posto fisso” (cit. Checco Zalone), ma legato ai risultati ottenuti e in discussione, lui per primo.
Un avvocato che vince una causa ogni 10 cambia attività e così dovrà essere anche per il c.t. e per chi lo ha nominato.
La gestione federale, infatti, ci ha abituato da troppo tempo a vedere soggetti liberi di esercitare il loro potere, inchiodati alle loro cadreghe a prescindere dai risultati, il c.f a ratificare passivamente le liste dei convocati e tutti muti.
Se chi sbaglia non paga e se chi merita non è premiato possiamo chiudere bottega a velocità fotonica.
Solo una rivoluzione meritocratica e la tolleranza zero verso esperimenti bislacchi, raccomandazioni e rivalse personali ci potrà farà vedere i suoi frutti nel confronto sempre più duro con i rivali internazionali.
Un dovere di sorveglianza più stringente da parte della Federazione, se ne vogliamo lentamente venire fuori, è molto auspicabile insieme a un radicale cambio di atteggiamento, perché i tesserati non sono sudditi, ma sono il cuore pulsante della nostra Comunità.
Sempre che una Federazione che le politiche dei presidenti Scarso e Azzi (il primo attualmente Presidente onorario e, sembra, con poteri operativi affiancato al Presidente statutario, cosa, se è vera, inedita e inaudita) hanno finito per trasformare in un enorme carrozzone governativo con un interminabile elenco di commissioni federali (17 oltre allo Staff del Presidente il cui ruolo ancora non mi è chiaro) e almeno 106 componenti (sic!), sia davvero in grado di funzionare. Cosa di cui fortemente dubito.
Ma la speranza è l’ultima a morire, come si sa, e alla Scherma italiana, nonostante le avversità e il mio fondato pessimismo, faccio il mio più sentito in bocca al lupo.
Riccardo Bonsignore Z.
Pura verità. La situazione é esattamente questa con il risultato che i ragazzi appassionati, volenterosi e amanti della scherma, abbandonano perché hanno ben capito che se non tirano per certe società (sempre quelle), se non hanno certi cognomi, se non sono allenati da certe persone o se non abitano in certe città, non hanno alcuna possibilità di entrare nel giro della Nazionale. Fino ad ora tutti hanno sempre saputo e ben pochi hanno detto come stavano realmente le cose per paura di ritirsioni. È assurdo e scandaloso. Lo sport non è questo. Personalmente speravo che il mondo della scherma fosse diverso , ma purtroppo mi sono accorta che non è cosi.
RispondiEliminaIl blog è frequentato anche da persone che non conoscono la storia degli ultimi decenni della FIS, quindi, per amore di verità, faccio presente che l'avv. Bonsignore si è candidato alla carica di Consigliere federale nell'assemblea del dicembre 2012.
RispondiEliminaComplimenti Riccardo.
RispondiEliminaMentre qualcuno continua a nuotare nel delfinario, tu hai affrontato, con l'abilità del vero didatta, l'occhio fresco di un bambino ed il tuo vergare pulito e preciso, l'intera gamma di errori che affliggono la federazione.
A te ancora i miei complimenti e a tutti i lettori il mio solito: meditate, gente, meditate.
Cordialmente.
Gaspare Fardella
Bella lì, Rick
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